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Scritto da Redazione
Economia e lavoro
08 Marzo 2021

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Più di una imprenditrice o lavoratrice autonoma su due non si è fatta travolgere, nemmeno psicologicamente, dall’annus horribilis 2020. Addirittura quasi il 40% di questa platea in rosa l’anno scorso si è impegnato in maniera proattiva, ad esempio riorganizzando la propria attività, o ha continuato a lavorare registrando a fine anno risultati economici positivi. Viceversa, il 47% circa assicura che, se l’emergenza non sarà superata in breve tempo, potrebbe ridimensionare fortemente la propria attività (39,1%) o addirittura chiudere i battenti (8,3%). Dati, ovviamente, che riguardano le titolari di attività rimaste aperte, al netto insomma delle realtà già cessate. E’ quanto emerge da una indagine condotta dal Centro studi Cna in collaborazione con Cna Impresa Donna nazionale in occasione della festa della donna in un campione rappresentativo di iscritte alla Confederazione.

“Il 2020 è stato un anno particolarmente duro per le donne lavoratrici, sia autonome sia dipendenti – spiega Olivia Ruggi, presidente provinciale di Cna Impresa Donna -La crisi, infatti, ha picchiato in particolare le attività dove sono presenti in maggior misura le donne. Degli oltre 440mila posti di lavoro persi l’anno scorso in Italia, rileva l’Istat, il 70% circa era occupato da donne e questo in un Paese che ha il più basso tasso di occupazione femminile, Grecia esclusa”.

L’asimmetria dell’impatto della crisi sul mercato del lavoro italiano discende dal fatto che i settori maggiormente bersagliati dalla crisi sono quelli che rientrano in filiere (moda, turismo, attività culturali, servizi alla persona) dove maggiore è la presenza femminile in termini di occupazione. E dove è anche maggiore la presenza femminile nell’imprenditoria e nel lavoro autonomo. Anche l’occupazione indipendente femminile è uscita ridotta da questo anno. E questo benché abbia risposto molto meglio della componente maschile alla crisi globale scoppiata nel 2008 e alla crisi della finanza pubblica del 2011, dalle quali l’Italia non si era ancora ripresa prima che arrivasse la pandemia. Tra il 2009 e il 2019, infatti, il numero di donne che lavorano come indipendenti era rimasto pressoché costante, accusando un calo dello 0,4% a fronte del -8,8% maschile. Nei primi nove mesi dell’anno scorso queste tendenze si sono però invertite: a fronte del -3,9% femminile, la componente maschile del lavoro autonomo si è fermata al -2,2%.

“A livello psicologico – continua la Ruggi - risultati economici a parte, il 2020 ha avuto un impatto perlopiù negativo: il 60,5% delle intervistate lo ha vissuto con sentimenti di preoccupazione, all’opposto il 37,5% ha affermato di aver guardato al futuro con speranza e fiducia. Le imprenditrici più pessimiste sono soprattutto quelle la cui attività è stata fondata prima del nuovo millennio, evidentemente provate dalle due precedenti crisi. A reagire con maggiore carattere le imprenditrici che hanno fondato da sé la propria attività”.

Sono ben quattro intervistate su cinque a essere deluse dall’atteggiamento complessivo dell’opinione pubblica rispetto al loro lavoro, che è meno considerato di quello degli uomini. Un atteggiamento, a loro parere, condiviso dalla politica: due intervistate su tre lamentano la scarsa o nulla considerazione percepita.

Infine, la valutazione delle misure ritenute più idonee per favorire la conciliazione famiglia-lavoro delle imprenditrici e delle lavoratrici autonome appare influenzata dal modo in cui le imprenditrici hanno vissuto l’anno della pandemia.

Se infatti, complessivamente quasi il 51,4% delle intervistate indica negli investimenti in servizi per l’infanzia (asili nido e scuole materne) e per l’assistenza agli anziani la misura su cui puntare principalmente, questa preferenza viene espressa con maggiore decisione dalle imprenditrici “più reattive” (quasi il 55%).

 

 

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